Microdistillerie, tra nuove mode e ritorno alle origini

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Il movimento delle microdistillerie è di sicuro fascino e interesse, con la sua massima espressione negli Stati Uniti, dove negli ultimi anni è cresciuto quasi quanto quello dei microbirrifici. In America sono nate associazioni di distillatori e un numero sempre maggiore di piccole e medie distillerie si è affermato su tutto il territorio, diventando un fenomeno culturale oltre che produttivo.

Così come è avvenuto per la birra artigianale, crediamo che anche il fenomeno delle microdistillerie diventerà presto virale in tutto il mondo. I segnali ci sono già: nuove realtà stanno nascendo in Europa, in Oriente e in Giappone, riportando al centro la qualità e il legame con il territorio.

Un esempio arriva dall’Italia, con Green Engineering, azienda leader nella produzione di alambicchi e tecnologie per la distillazione a livello internazionale. La società ha sviluppato un alambicco “ready to use” di piccole dimensioni pensato appositamente per questo mercato, di cui parleremo in dettaglio in un articolo dedicato con il vice direttore Eugenio Macchia.

Durante il Miami Rum Festival abbiamo incontrato diversi produttori di microdistillerie: Nine Leaves dal Giappone, Richland Rum dalla Georgia e Bayou dalla Louisiana (di cui abbiamo scritto fin dalle origini). Abbiamo inoltre visitato alcune distillerie in Florida, a Key West. Il tempo non ci ha permesso di esplorare altre aree, ma il viaggio proseguirà.

Ciò che accomuna queste realtà è una filosofia di produzione controcorrente rispetto al mercato di massa: uso di pot still, fermentazioni lunghe con lieviti autoctoni, invecchiamenti leggeri, sperimentazioni sui legni e materie prime locali. Le microdistillerie puntano a rispettare il liquido e riportare il rum alle sue origini, valorizzandolo come uno dei distillati più importanti al mondo. Basta con i rum addizionati di zuccheri o caramello: il futuro guarda all’autenticità.

Un ritorno alle radici, come già visto ad Haiti, dove il rum è ancora legato al territorio e alla tradizione. Veder emergere questo approccio anche negli Stati Uniti è una sorpresa positiva che fa ben sperare per il futuro del rum.

Tuttavia, non possiamo ignorare il problema della carenza di legislazione. Come ci ha ricordato Frank Ward di WIRSPA, serve una normativa chiara per proteggere l’identità del rum. Questo distillato prende il suo carattere dall’intero processo produttivo: dalla materia prima nascono gli aromi primari, dalla fermentazione quelli secondari, e dall’invecchiamento il bouquet complesso dei rum maturati. Alterare artificialmente questo processo significa tradire l’essenza stessa dello spirito.

Per questo guardiamo con sospetto chi promette rum “ventennali” creati in pochi mesi o ricorre a tecniche chimiche per accelerare l’invecchiamento. Come ci disse John George di Angostura a Trinidad: “C’è qualcosa nell’invecchiamento che non riusciremo mai ad analizzare con i nostri strumenti, ma che il nostro palato saprà sempre riconoscere. Non si può ingannare il tempo. Non si crea solo alcol, ma spirito.”

La domanda è inevitabile: sapremo riconoscere queste manipolazioni? Al Miami Rum Festival, durante una degustazione cieca, abbiamo avuto la conferma che sì, il palato riesce ancora a distinguere l’autenticità. Questo ci conforta.

La qualità è un concetto complesso: esiste una componente oggettiva, ma anche una soggettiva. Tuttavia, non può mai prescindere dal rispetto del liquido e della tradizione.

In definitiva, il fenomeno delle microdistillerie nel mondo del rum è positivo e stimolante. Perché il rum possa consolidarsi tra i grandi spiriti internazionali, serve però una corretta normativa globale che tuteli la sua identità e il suo legame con il territorio.

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